lunedì 21 dicembre 2009

Dopenhagen

L'immagine più emblematica della COP-15 di Copenhagen è quella di Claudia Salerno Caldera, capo delegazione del Venezuela, che sbatte sul tavolo la sua targhetta di identificazione per avere la parola, fino a feririsi la mano e sanguinare.
Questo succedeva nella drammatica e interminabile plenaria di sabato 19 dicembre, durata quasi 13 ore.
Venezuela, Nicaragua, Costarica, Cuba, Bolivia, Sudan e Tuvalu sono le sette nazioni che si sono opposte all'approvazione del Copenhagen Accord, che secondo le regole delle Nazioni Unite avrebbe dovuto avere l'unanimità delle delegazioni presenti. Il fermo dissenso dei sette ha portato a una procedura mai sperimentata prima, frutto della mediazione del segretario generale Ban Ki-moon: l'asssemblea ha "preso atto" dell'accordo e i paesi che lo approvano (tutti meno i sette citati prima) dovranno ufficializzare entro gennaio 2010 i loro obiettivi di riduzione delle emissioni.
Il percorso è più tortuoso del previsto ma sostanzialmente segue la falsariga di un accordo. Quanto ai dissensi, nel violento parere negativo dei cinque paesi latinoamericani guidati dal Venezuela è facile leggere una opposizione politica al metodo e alla nuova leadership dell'America di Obama. In questa analisi il dato cruciale e che la voce più autorevole dell'America Latina, il Brasile di Lula, ha invece appoggiato l'accordo e partecipato attivamente alla sua redazione.
Venezuela e gli altri paesi latinoamericani non sono mai stati in prima linea nella lotta ai cambiamenti climatici, di cui non sono nè le prime vittime nè i principali responsabili. La loro opposizione è politica, come quella del Sudan, che è stato sconfessato dal resto dell'Africa e dal gruppo G-77+Cina di cui è temporaneamente portavoce. Imbarazzante che sia stato proprio il Sudan, dove è in corso un genocidio nel Darfur, a paragonare l'accordo di Copenhagen all'olocausto. Resta Tuvalu, piccola nazione insulare polinesiana che per tutte le due settimane di Copenhagen ha recitato un ruolo da protagonista rifiutando qualunque mediazione al ribasso. Ma anche in questo caso la posizione di Tuvalu non è condivisa dagli altri paesi insulari, Maldive in testa.
Restano molte perplessità sulla irrituale conclusione del vertice e sullo stesso valore legale dell'accordo, che non essendo stato approvato dall'assemblea resta un documento ad adesione volontaria. Sarà opportuno ricondurre la discussione in ambiti tecnici, assolutamente trascurati nel vortice dei negoziati politici svoltisi a Copenhagen tra venerdì e sabato. L'unico dato tecnico rimasto nelle tre brevi pagine del Copenhagen Accord è la volontà di non superare i 2° di riscaldamento globale. Non è poco, ma detto così ha poca sostanza.
Adesso comincia il dopo Copenhagen che io chiamo Dopenhagen. Entro poco più di un mese da oggi, per la fine di gennaio 2010, ogni nazione dovrà indicare i suoi obiettivi di riduzione delle emissioni (cosà farà l'Italia?). Il tavolo ufficiale UNFCCC si riaprirà a Bonn dal 31 maggio all'11 giugno 2010. Si ricomincia.

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