martedì 14 dicembre 2010

Il bignamino di Cancun

Se avete inserito il correttore automatico di Word e digitate Cancun il computer lo trasforma immediatamente in cancan.
Nelle aspettative di molti, questo sarebbe dovuto essere l'esito della COP 16 messicana: una ridda di posizioni politiche inconciliabili, la messa in discussione dello stesso meccanismo decisionale delle Nazioni Unite, in  sintesi un fallimento totale.
Le cose non sono andate così e anche i più scettici ammettono che le conclusioni della conferenza sul clima di Cancun hanno superato nettamente le aspettative. Non si è arrivati ad un accordo legally binding, è vero, ma nessuno ci sperava davvero. Due settimane di pazienti e laboriosi negoziati hanno portato all'approvazione di una serie di accordi di rilievo che hanno avuto il benestare di 192 delegazioni su 193, con l'unica opposizione della Bolivia. Questa sarebbe in sè una violazione del protocollo delle Nazioni Unite, che prevede l'unanimità, ma la presidenza messicana ha voluto portare a termine un piccolo strappo sull'argomento, dichiarando comunque approvate le decisioni. Lo scorso anno a Copenhagen la Bolivia si oppose alla ratificazione del Copenhagen Accord assieme ad altre sei nazioni: Venezuela, Nicaragua, Costarica, Cuba, Sudan e Tuvalu. A Cancun il presidente boliviano Evo Morales, che è stato presente alla conferenza, è rimasto solo. Morales e la Bolivia hanno rifiutato gli accordi perché giudicati troppo inconsistenti rispetto alle necessità. Una posizione radicale ma rispettabile, che però non ha trovato proseliti. Tutti gli altri hanno preferito la via di un accordo di massima, non vincolante ma politicamente importante, che ristabilisce un percorso comune destinato a concludersi tra un anno alla COP 17 di Durban in Sud Africa.
Gli accordi di Cancun sono riassunti in una serie di documenti tematici, i cui due principali sono quelli relativi al protocollo di Kyoto e alla cooperazione a lungo termine. Su questi due tavoli si giocava il ruolo delle Nazioni Unite come controllore e garante di un percorso politico globale nella lotta ai cambiamenti climatici. E su questi due tavoli sono stati raggiunti i risultati politici più importanti. Per quanto riguarda il protocollo di Kyoto, che scade nel 2012, il documento ne garantisce una estensione, cancellando le riserve espresse da Giappone, Canada e Russia. Sul tema della cooperazione a lungo termine, ovvero del ruolo dei paesi emergenti, Cina, India e gli altri accettano un percorso che li porterà a limiti prescrittivi e ad attività di controllo e verifica dei risultati ottenuti. Certo, i tetti di emissione per ogni singolo paese non sono stabiliti, ma questo era prevedibile e forse necessario per raggiungere un accordo in Messico. Nel mio piccolo io stesso avevo prospettato questa ipotesi alla commissaria europea per il clima Connie Hedegaard.
Altre decisioni importanti sono state concordate sui temi della deforestazione, dei finanziamenti per l'adattamento ai cambiamenti climatici dei paesi più poveri, sulla condivisione delle tecnologie (tutte qui).
Sotto il profilo dei numeri è importante notate che nei documenti finali la conferenza ha adottato le riduzioni di CO2 indicate dagli scienziati dell'UNFCCC, ovvero dal 25 al 40% entro il 2020 e almeno l'80% entro il 2050. Queste, secondo il cartello di scienziati ONU, sono le quantità necessarie per cercare di limitare il riscaldamento globale ad una soglia di 2° per la fine del secolo. E anche se gli accordi di Cancun non  prevedono obiettivi vincolanti per i singolo stati, la loro approvazione porta sotto l'ombrello delle Nazioni Unite sia i tetti di emissione dei paesi industrializzati, sia le limitazioni per i paesi emergenti. Il percorso politico è ristabilito e si può guardare con ottimismo alla COP 17 di Durban.
Cancun ha superato le aspettative generali grazie ad una conduzione impeccabile della presidenza messicana e ad una preziosa disponibilità della segreteria UNFCCC, rappresentate rispettivamente da Patricia Espinosa, ministro degli esteri del Messico, e dalla costaricana Cristiana Figueres, che ha sostituito sei mesi fa l'olandese Yvo de Boer. L'assenza dei leader mondiali ha permesso ai negoziati una concretezza maggiore ed ha riportato in primo piano i contenuti.
L'Unione Europea, emarginata lo scorso anno a Copenhagen dal bilateralismo tra America e Cina, è tornata a recitare un ruolo da protagonista. L'obiettivo di riduzione tra il 25 e il 40% approvato a Cancun porterà probabilmente la UE ad elevare al 30% il proprio target per il 2020, come sostengono da tempo Gran Bretagna, Francia e Germania contro l'opposizione di Italia e Polonia. Il nostro paese, che a Cancun ha recitato un ruolo purtroppo marginale, dovrà adeguarsi ad una piattaforma programmatica alla quale il governo attuale, al contrario dei grandi paesi europei, non ha voluto prepararsi. Questo nuocerà profondamente all'economia nazionale e ci costringerà a rincorrere le nazioni che da tempo hanno capito (e non era difficile) che su questo fronte si giocano le carte più importanti per uscire dalla crisi economica ed acquistare competitività sui mercati internazionali.
Nel prossimo post i riflessi degli accordi di Cancun su città e governi locali.

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